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“Sul vecchio tracciato ferroviario”, di Luigi Murolo

Che strano! Era davvero bello poter camminare a piedi lungo il tracciato dismesso della linea ferrata, seguendo un percorso che aveva già visto in un passato ancora in bianco e nero l’utilizzazione dello stesso da pedoni che, accompagnando la bicicletta, sorridevano felicemente (foto 1). Dove andassero, non è dato di sapere. In effetti, era ancora di là da venire il segmento dell’allora nuova SS. 16 (l’attuale) che avrebbe dirottato il traffico fuori dalla città. Di fatto, negli anni Cinquanta del Novecento, nessuna rotabile lambiva la costa rocciosa vastese.
Certo, sarebbe stato bello, oggi, poter camminare come facevo da ragazzo – oggi buon settantenne – quel sentiero percorso dai nostri nonni. E, invece, una pista ciclopedonale ci impedisce di cogliere lo straordinario rapporto tra i piedi e la terra di cui un tempo, senza rendercene conto, potevamo disporre. Per riuscire ancora a praticarlo, mi reco qualche volta presso il Biotopo costiero di San Salvo dove è stato ricostruito un breve tratto per poterne provare la stessa sensazione ed emozione (foto 2). Quasi a dire a me stesso, intimo e palpitante è stato il prodigio della strada di terra e di pietre.
Che devo aggiungere! Oggi ecologico si chiama l’asfalto destinato al transito ciclistico. Per quanto mi riguarda, chiamerei ecologici solo i sentieri sterrati riservati al passaggio dei pedoni o ai praticanti del ciclocross. Nient’altro. Ma sapete: ciò che penso io non conta. Sono vecchio, fortunatamente. E mi ostino a non capirlo.
Ho letto di associazioni che protestano per la mancata realizzazione della Riserva di Casarza. Benissimo. Mi chiedo: di quale riserva possiamo parlare se un nastro colorato l’attraversa eliminando la dolcezza del camminare (come in quel di Punta d’Erce soffocata, purtroppo, da una frequentazione estiva inaccettabile) e di un osceno parcheggio che svilisce l’approccio meditato al “litus petrosus”. La bellezza non va offerta. Va guadagnata con la tortuosità del cammino. Dovrebbe essere disponibile solo per chi la merita, cercandola. E poi? E poi tutto questo è niente se si pensa all’edilizia costiera. Dunque asfalto, asfalto, asfalto! Accessi, nuovi accessi, nuovi accessi semplificati! Calette negate! Ristoranti su palafitte di mare che vengono chiamati con una parola che nulla ha da dividere con ciò che teoricamente dovrebbe indicare. Con una sorpresa per tutti. Quale? Quella del croupier di turno che, con fare sornione, si trova a annunciare: «Voilà, mesdames et messieurs, les jeux sont faits. Rien ne va plus». E poi? Poi sapete una cosa: sono tutte parole nel vuoto! Perché ciò che penso io non conta. Sono vecchio, fortunatamente. E mi ostino a non capirlo.
Talvolta mi vien dato di pensare che ho sbagliato pesantemente quando, una quarantina di anni fa, io e il mio amico Cenzino Ronzitti ci siamo battuti contro la megacentrale termoelettrica a carbone con quattro unità da 640 megawatt ciascuna per evitare la mostruosità di una nuova Taranto. Che senso ha avuto se, dopo quarant’anni, dobbiamo fare ancora i conti con colate di bitume “ecologico”, con edilizia selvaggia, con riserve mancate e con chi più ne ha più ne metta? Non sarebbe stata meglio una megacentrale ad hoc che avrebbe risolto tutti i problemi? Ma poi, tornando sui miei passi, mi sono detto: A me che importa. Il mio dovere l’ho fatto. Che siano le nuove generazioni, se ne hanno voglia, a agire per la città. Del resto, le mie sono tutte parole nel vuoto! Perché ciò che penso io non conta. Sono vecchio, fortunatamente. Anche se mi ostino a non capirlo.
Forse l’unica cosa interessante nel caos di cui parlo è la disattenzione verso i resti della seicentesca tenuta d’Avalos alla Canale che ancora sussistono (foto 3) e di cui nessuno ne parla malgrado lo schizzo ottocentesco di Alfonso Celano (foto 4). Meno male. Almeno sarà il tempo a lasciarne cadere l’ultima traccia nel silenzio in cui è giunta fino ai nostri giorni. Ah, dimenticavo! Quelle escrescenze dannose (come qualcuno le ha definite) si vedono anche dalla famosa pista ciclopedonale! Ma tanto i ciclisti attenti alla strada quanto i pedoni attratti dal magico asfalto passano avanti e … (boh!). L’ultima volta che ho visto quelle presenze amiche si è concretizzata poco prima che il manto bituminoso e la resina colorata ne cancellassero l’aura, insieme con le pietre della massicciata che ne segnavano il tracciato. Già, un’esperienza straordinaria del camminare, quella! Ben sapendo, tra l’altro, che non avrei mai più avuto tale possibilità. Per congedarmi da quel mondo ho salutato anche i resti della stazioncina di Vignola attivata lunedì, 25 aprile 1864 ancora integrati nel loro contesto originario (foto 5). È vero! sussistono ancora oggi. Ma sono muti. Murature simili ad altre murature che nulla dicono intorno a ciò che hanno rappresentato. Il mio è un ricordo. Sì, un semplice ricordo! Che continua a vivere in ciò che i miei antichi concittadini chiamavano «mammùriǝ» (memoria). Per le fotografie vale un altro discorso. Penso soprattutto a ciò che Roland Barthes aveva sottolineato in un vecchio saggio dal titolo “La camera chiara” (Torino, Einaudi, 1980, p. 86): «La fotografia non dice […] ciò che non è più, ma sicuramente ciò che è stato. […] l’essenza della fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae». E allora che cosa ritraggono queste povere foto? Un senso immediato di grande serenità nel rapporto che si stabilisce tra natura e sentiero (foto 6). Bellezza? Forse! Ma a me interessava il selciato. Il selciato in quanto tale. Non solo perché mi riportava alla mente le strade pietrose di Vasto che percorrevo da bambino. Ma anche, perché, più avanti negli anni mi ero imbattuto in quel passo delle “Metamorfosi” (I, vv. 400-402) in cui Ovidio aveva scritto:
Saxa (quis hoc credat, nisi sit pro teste vetustas?)
ponere duritiem coepere suumque rigorem,
mollirique mora, mollitaque ducere formam.
(I sassi – chi lo crederebbe, se non lo attestasse una tradizione antica? –
cominciarono a perdere la loro fredda durezza,
ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma).
Ve l’immaginate quale straordinaria associazione di idee è riuscito a produrre un vecchio selciato prossimo alla sua scomparsa. Il senso della metamorfosi di un cammino. Di un cammino continuamente modificato nel tempo dai “viatores” che lo hanno percorso. Un mutamento che rendeva più teneri i sassi e che avrebbe potuto favorire l’accesso di viaggiatori singolari come Theodor Mommsen, Italo Calvino, Mario Soldati, Guido Piovene che hanno lasciato traccia nei loro scritti della loro permanenza in città.
E che cosa posso dire di più. Le mie sono tutte parole nel vuoto! Perché ciò che penso io non conta. Sono vecchio, fortunatamente. Anche se mi ostino a non capirlo.
Le foto seguono l’ordine indicato nel testo
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