E’ morto Oliviero Beha, un giornalista che ho sempre stimato perché irriverente. Non è facile trovarne in Italia. Il giornalismo, annota de Bortoli in “Poteri forti (o quasi)”, dovrebbe essere il guardiano del potere, mentre spesso ne è soltanto un cucciolo ansioso di ricevere una carezza. Beha ringhiava e non chiedeva carezze.
Ci conoscemmo sulle tribune dell’Olimpico negli anni Ottanta. Io accanto a Vladimiro Caminiti, lui guardato con invidia da tanti colleghi, soprattutto per l’inchiesta su Italia-Camerun al Mondiale di Spagna. Rimase stupito che un diciottenne avesse già letto “All’ultimo stadio. Una Repubblica fondata sul calcio”, libro esemplare scritto con Franco Ferrarotti.
Continuai a seguirlo con avidità, sempre interessante, mai banale. Poi, due vite dopo, a luglio del 2007 accettò con entusiasmo di venire a Vasto a presentare “Come resistere nella palude di Italiopoli”. Aveva letto sul web alcuni articoli di Polis, alcune delle battaglie di Polis ed esclamato: “Ma io questo D’Alessandro lo conosco!”.
Passammo una bella serata, mangiando pesce e bevendo vino bianco. Parlammo anche di Bartali, della fatica di Bartali, del naso triste come una salita. Nel 2014 arrivò il suo libro più intenso, proprio sul campione fiorentino: “Un cuore in fuga”. Lo regalai a mio padre con la dedica di Oliviero. Grazie di tutto.
Davide D’Alessandro