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L’ultimo lembo vastese del mondo della vita: Pasolini e qualche parola sulla modernità

Ma chi avrebbe potuto avere la genialità di rappresentare, nella seconda metà del Novecento (1967), un Edipo in viaggio verso l’oracolo di Delfi con un copricapo perfettamente modellato sull’elmo del Guerriero di Capestrano? E poi, a chi sarebbe potuto venire in mente di profilare l’incontro di re Edipo con l’oracolo di Delfi – con un richiamo esplicitamente dichiarato nella sceneggiatura – all’universo michettiano degli “evviva Maria” e degli storpi in cerca di grazie? Con una particolarità. Che la vergine sacerdotessa di Apollo si presentava allocata su di albero allo stesso modo in cui la vergine Maria, nel 1576, era apparsa al veggente Alessandro Muzio nel luogo del Santuario di Casalbordino.
Già! Solo l’incredibile capacità evocatrice di Pier Paolo Pasolini poteva restituire, nella sua contemporaneità, l’intreccio figurativo dell’arcaismo monumentale vestino e del primitivismo liturgico delle folle assetate di una giustizia a loro sempre negata. Era questa compresenza ancora attiva in un presente “laicizzato” che consentiva a Pasolini di combattere il nulla che avanzava. Il consumismo che divorava l’anima. L’informe che, nell’urbanizzazione selvaggia non solo, stava annientando il “genius loci delle città ma omologava alla propria liquidità esistenziale lo splendore delle forme definite e delle relazioni umane. Sono sempre stato orgoglioso di riconoscermi in quei due versi della raccolta pasoliniana “Poesie in forma di rosa” (1964) che hanno orientato la mia vita: “Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore”. E, proprio per tale ragione, di fronte all’ennesimo tentativo di omicidio paesaggistico di un “locus” marittimo – già mortalmente ferito da un turismo pezzente e divoratore di suolo, di arenile e di biotipo costiero – voglio gridare il mio più indignato “vaffanculo” a quegli anonimi “pulcinella d’una modernità di fuoco” – come avrebbe detto Pasolini – che si divertono a cancellare con calcoli astratti l’ultimo lembo vastese del mondo della vita.
Vi invito a leggere questi straordinari versi del nostro sommo Pier Paolo. Poi, ognuno, ne tragga le conseguenze che meglio crede.

Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia un sole
il cui calore è calmo come un mare:
lì ridotto, il rudere è senza amore. Uso
e liturgia, ora profondamente estinti,
vivono nel suo stile – e nel sole –
per chi ne comprenda presenza e poesia.
Fai pochi passi, e sei sull’Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita, chi stile e storia
non ne sa. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
indifferenza e violenza. Migliaia,
migliaia di persone, pulcinella
d’una modernità di fuoco, nel sole
il cui significato è anch’esso in atto,
si incrociano pullulando scure
sugli accecanti marciapiedi, contro
l’lna-Case sprofondate nel cielo.

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

di Luigi Murolo

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