
«Ho conosciuto un grande studioso benedettino, don Anselmo Lentini, che un giorno si sentì male e fu ricoverato in ospedale a Napoli. Lo andai a trovare e lui, parlandomi della possibilità della morte, mi disse con un sorriso: sai, mi viene in mente il salmo che fa: “Esultai quando mi dissero: andiamo alla casa del Signore!”».
L’arcivescovo Bruno Forte è il teologo al quale Francesco, pochi mesi fa, ha chiesto di presentare in Vaticano la sua ultima enciclica, Dilexit Nos, il testo nel quale tra l’altro Bergoglio ha scritto: «Quando il cuore non viene apprezzato, perdiamo le risposte che l’intelligenza da sola non può dare, l’incontro con gli altri, la poesia. Alla fine della vita conterà solo questo».
Eccellenza, è un momento difficile, si moltiplicano rosari e preghiere per il Papa…
«Sì, anch’io sto vedendo un grande movimento di preghiera, organizzata da gruppi e parrocchie e anche spontanea. È una cosa molto bella, un’espressione di grande affetto. E ci fa capire una cosa essenziale».
«Vede, tutti noi preghiamo e ci auguriamo che Francesco si rimetta in salute. Io stesso, nella mia diocesi di Chieti-Vasto, ho invitato a recitare una preghiera che tra l’altro dice: “Custodiscilo nel tuo amore e donagli salute e forza per continuare a svolgere il suo ministero di carità, di verità, di giustizia e di pace”. È naturale che questa sia l’invocazione dei fedeli. Però in tutto questo ci può essere anche altro».
Che altro?
«Sarebbe bello se questa fosse l’occasione per parlare della morte in termini più sereni. Di mostrare che cosa significa per i cristiani, i credenti, proprio guardando alla testimonianza del Papa».
Come crede stia passando questi giorni in ospedale?
«Vede, Francesco è un uomo di fede profonda. È naturale che desideri stare meglio e poter continuare il suo servizio, il suo slancio evangelico, il compito che Dio gli ha affidato. Lo speriamo tutti quanti. Ma non c’è dubbio che in questi momenti si rimetta totalmente nelle mani del Signore, sapendo che il disegno di Dio, quale che sia, ci precede. È questa sua serenità, il suo affidamento totale, a essere esemplare».
E l’ansia che, al contrario, accompagna il ricovero all’esterno?
«Quando si fa tanto chiasso sulle ipotesi di conclave, la successione, si dimentica l’aspetto più importante: un uomo che è sotto gli occhi del mondo e ci sta dando la testimonianza di come un credente affronta la malattia, consapevole che può anche andare incontro alla fine della vita, e sperimenta tutto questo con abbandono, serenità e fiducia in Dio. Perché la morte, per un uomo di fede, è un passaggio. Non si interrompe nulla. Là c’è una porta».
Perché si ha paura a parlare anche solo della possibilità della morte?
«In generale, perché viviamo in un modo che assolutizza la vita terrena. Oltre, si pensa ci sia solo il nulla».
Nelle catechesi sulla vecchiaia, Francesco citava di Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, «un passo molto bello che dice: “Così come nella vita, anche nella morte dobbiamo dare testimonianza di discepoli di Gesù”».
«Proprio così. È la sua spiritualità di gesuita. Penso alla contemplación para alcanzar amor, la “contemplazione per raggiungere l’amore” negli Esercizi Spirituali di Ignazio. È questo che un uomo di fede vive. Ciò che conta non è il tempo più o meno lungo che ci è dato ma il viverlo con amore, il filo che collega la nostra vita all’eternità».
Il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita come Bergoglio, con un’espressione dantesca chiamava la morte il «duro calle».
«Questo non si discute. Ma “duro calle” significa, appunto, che c’è un passaggio. Certo un passaggio arduo, agonico. Con la morte si combatte, in greco agonía significa proprio questo: lotta. Però, in una visione di fede, di là dalla morte non c’è il nulla. Non è la fine, è l’accoglienza di Dio e il suo giudizio di amore».