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Antiche foreste d’Abruzzo, la grande bellezza nascosta

Dai tronchi possenti dei grandi faggi si diramano rami lunghi e contorti, addobbati da barbe acquamarina di licheni e muschi color smeraldo. È la fine di agosto, ma le foglie mostrano già l’aspetto decadente dell’autunno. La faggeta emana un odore umido, terroso, di funghi e decomposizione. Al cospetto delle piante plurisecolari si prova un senso di soggezione e meraviglia. La quiete della vecchia foresta è quasi palpabile, carnale, e non sembra tollerare turbamenti; viene quasi spontaneo passare accanto a questi giganti indifferenti a testa bassa, in silenzio.

Mi trovo nella Val Cervara, una diramazione della più grande vallata che da Villavallelonga, cittadina ai margini della Conca del Fucino, penetra nel cuore del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. L’area protetta più antica d’Italia, “Il Parco”, come la chiamano tutti da queste parti, è stata istituita nel lontano 1923 proprio per proteggere, assieme a orsi, camosci e aquile, le montagne e le foreste di questo angolo fortunatamente dimenticato d’Appennino. Ma in pochi sanno che la silenziosa faggeta in cui mi trovo ne è uno dei tesori più preziosi.

Nei primi anni di questo secolo alcuni ricercatori dell’Università della Tuscia di Viterbo hanno localizzato nella Val Cervara una faggeta primaria, rimasta sorprendentemente “dimenticata” nel cuore d’Italia. Probabilmente troppo isolata e scomoda per giustificare un intenso sfruttamento economico, questa foresta è stata risparmiata per lungo tempo dalla mano dell’uomo.

«È stato come venire proiettati indietro nella storia ed entrare in contatto con una foresta di altri tempi, di cui si pensava non esistesse più traccia in Italia». Anche se sono passati quasi vent’anni, uno degli “scopritori” della Val Cervara, l’ecologo forestale Gianluca Piovesan, ricorda ancora con emozione la sua prima visita. «Abbiamo risalito tutta la valle, attraversando passo dopo passo ambienti sempre più naturali, fino a giungere nel tratto meglio conservato».

Dallo studio di questa antica foresta, tecnicamente definita vetusta, Piovesan e i suoi colleghi hanno potuto stimare l’età degli alberi, scoprendo che alcuni esemplari eccezionali arrivano a quasi 600 anni, ben tre secoli oltre la longevità nota sino ad allora per il faggio. E così questi alberi, nati prima del Rinascimento e dell’arrivo di Colombo nelle Americhe, risultano essere i faggi più vecchi dell’intero emisfero settentrionale di cui si abbia notizia. Un ritrovamento straordinario, che ha giustamente portato all’attenzione dell’ambiente scientifico internazionale le faggete abruzzesi, innescando il lungo processo di candidatura di queste foreste a Patrimonio mondiale dell’Umanità. Processo che si è concluso nell’estate 2017,

Quando, oltre alla Val Cervara, altri quattro nuclei di faggeta vetusta del Parco hanno ottenuto l’importante riconoscimento dell’Unesco e la loro inclusione tra le “Antiche faggete primordiali dei Carpazi e di altre Regioni d’Europa”.  «Si tratta del primo inserimento di un sito naturale italiano per il suo valore ecologico e, per l’Abruzzo, del primo sito in assoluto nella lista Unesco», sottolinea con una punta di orgoglio Antonio Carrara, Presidente del Parco nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, l’ente che, per conto del Ministero dell’Ambiente, ha rappresentato la “cabina di regia” a livello nazionale del processo di candidatura. «Le foreste di faggio», prosegue Carrara, «sono un elemento caratterizzante del nostro Parco per il loro grande valore nella conservazione della biodiversità e dei servizi ecosistemici. Ora lo saranno ancora di più in una dimensione europea e mondiale».

Non solo un vanto abruzzese, quindi, ma foreste la cui rilevanza valica i confini regionali e nazionali. Rientrano infatti in un sistema nazionale di 10 siti (Sasso Fratino in Toscana e Emilia-Romagna, Monte Cimino e Monte Raschio nel Lazio, Foresta Umbra in Puglia e Cozzo Ferriero in Basilicata) che a loro volta rappresentano l’Italia nella più ampia rete delle faggete vetuste europee, che vede coinvolte altre 11 nazioni.

Oltre alla Val Cervara, tra le aree che rientrano nel sito Unesco del Parco c’è la faggeta del Coppo del Principe, a Pescasseroli, il cui nome commemora la partecipazione di rappresentanti di casa Savoia a battute di caccia organizzate dai nobili locali agli inizi del Novecento. Ci sono poi quelle dai nomi decisamente meno rassicuranti del Coppo del Morto, tra Pescasseroli e Scanno, e di Selva Moricento, a Lecce nei Marsi. Mentre il sito della Val Fondillo, che ricade nei comuni di Opi e Civitella Alfedena e include le foreste della Cacciagrande e Valle Jancino, coincide di fatto con il nucleo storico di nascita del Parco stesso, da cui poi questo si è esteso alla superficie attuale.

Carmelo Gentile, tecnico forestale del Parco, spiega i criteri di selezione delle diverse aree: «Per individuarle è servito un lungo lavoro, sulle carte topografiche come sul campo. I cinque nuclei si distinguono per la loro elevata naturalità, caratterizzata da un mosaico di forme appartenenti a tutte le fasi del ciclo strutturale della faggeta e per la ridotta incidenza delle attività umane». 

Sebbene ci sia voluto un team di specialisti per selezionare le aree da includere nel cluster, ovvero nel raggruppamento, delle faggete vetuste del Parco, queste erano già ben note tra gli abitanti di queste montagne. Nonostante il loro eccellente status di conservazione, infatti, l’uomo le ha frequentate da sempre, spesso attraversandole per portare il bestiame al pascolo sulle praterie montane. «Abbiamo ereditato queste foreste, ma è nostra responsabilità proteggerne oggi l’integrità e garantire la permanenza dei processi evolutivi che le caratterizzano, così come è stato fatto da chi ci ha preceduto», afferma il presidente Carrara. Anche se l’Ente Parco di fatto è il principale organo di gestione delle faggete Unesco, si può dire che la storia di questo successo della conservazione in Italia sia iniziata dal basso, attraverso un processo di adesione bottom-up, grazie al quale la candidatura delle foreste è stata fortemente sostenuta anche dalle comunità locali.

Cinzia Sulli, responsabile del Servizio scientifico dell’Ente Parco, sottolinea: «Oltre al valore del riconoscimento Unesco, queste foreste rimangono importantissimi laboratori a cielo aperto per la ricerca e la gestione degli ecosistemi forestali. Gli alberi possono raccontarci le vicissitudini del clima e della storia umana degli ultimi secoli; illustrare complesse dinamiche ecologiche e rappresentare modelli per fare previsioni e scegliere future linee di gestione».

Rispetto alla percezione generale delle faggete come ambienti monotoni e ordinati, in una foresta vetusta sembra invece regnare il caos: alberi diversi per età e dimensioni, alberi morti in piedi, spezzati, schiantati al terreno e ovunque legno morto in decomposizione trasmettono un senso di disordine e negligenza. In realtà gli alberi possono compiere interamente il loro ciclo vitale proprio grazie alla mancanza di interventi umani, che in queste aree sono assenti da quasi un secolo.

Tutto ciò inoltre favorisce la biodiversità. Ogni grande albero è un habitat a sé e offre rifugio e sostentamento a migliaia di specie. Anche una volta morto, il suo legno marcescente viene degradato da un’intera comunità di organismi decompositori, fertilizzando il suolo con i nutrienti che lo costituiscono.

Da oltre vent’anni lo zoologo Danilo Russo dell’Università di Napoli Federico II e i suoi collaboratori lavorano nelle faggete vetuste abruzzesi, che ospitano una delle comunità di pipistrelli più ricche d’Europa, con oltre 25 specie: «Gli alberi deperenti o morti, ricchi di cavità, offrono spazi in cui molti pipistrelli, tra cui specie a rischio come il barbastello o il vespertilio di Bechstein, si rifugiano e mettono alla luce i piccoli». Sono spesso gli stessi alberi su cui si riproduce un coleottero raro e bellissimo, il cerambice del faggio, oppure sui quali uccelli di grande valore conservazionistico come il picchio dorsobianco cercano le larve di insetti di cui si nutrono. Alberi morti, certo, ma che rappresentano la vera vita del bosco.

Se da un lato i vincoli richiesti dall’Unesco possono garantire la tutela a lungo termine delle foreste, nessuno sa con certezza che cosa potrebbe comportare la minaccia meno tangibile, ma assai più insidiosa, dei cambiamenti climatici. In attesa di scoprire ciò che riserva il futuro, forse l’approccio migliore è intanto quello di “non lasciare traccia”, limitando la frequentazione e la fruizione di queste preziose foreste.

Il tempo concesso per visitare questo santuario della natura è scaduto; decido di togliere il disturbo. Il sentiero si vede appena tra i virgulti della rinnovazione: piantine assetate di luce, che approfittano della morte dei patriarchi per farsi avanti nella corsa verso l’alto. Anch’io affretto il passo, ma le ombre avanzano più veloci e la faggeta affonda inesorabilmente nell’oscurità.

Nell’atmosfera bluastra e indefinita del crepuscolo fatico a ritrovare i punti di riferimento dell’andata e così la foresta perde pian piano i connotati di un luogo fisico, diventando teatro della fantasia: i tronchi ai lati del cammino si trasformano in arti pachidermici, i rami in dita scheletriche. In ogni chiazza d’ombra o fruscio allora sembra volersi celare il pericolo, il mostro in agguato.

Rinuncio ad accendere subito la torcia, per indugiare ancora un po’ in questa sensazione di disorientamento, così esaltante e inusuale. Si tratta di qualcosa di atavico, di un’energia forte e primitiva. Come per magia, infatti, nelle faggete del Parco il selvatico è sopravvissuto sino a oggi, riuscendo ancora a scatenare nell’animo umano reazioni dimenticate e preziose. E così la selva oscura, da incipit dantesco, forse non è più solo allegoria di uno smarrimento morale o filosofico, ma diventa emblema della distanza che l’uomo moderno ha posto tra sé e mondi infinitamente più grandi e complessi persino della sua stessa immaginazione.

Bruno D’amicis (nationalgraphic) – fotografie di Bruno D’amicis e Umberto Esposito

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