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’Ndrangheta nel Vastese, maxi processo a Pescara 

Criminalità organizzata. I riflettori si accenderanno il 23 ottobre prossimo sull’Abruzzo e sul Vastese. Inizia quel giorno il processo agli imputati dell’operazione “Isola felice”, vicenda seguita dalla Dia (Direzione investigativa antimafia) e sulla quale è stata consegnata una inquietante relazione in Parlamento. L’Antiamafia ribadisce che la ’ndrangheta ha già cercato di mettere radici a San Salvo.
La vicenda, che coinvolge più regioni, sarà trattata nell’aula del tribunale di Pescara. Le misure cautelari nel settembre 2016 furono 25, 4 nel Vastese e altri 149 sono gli indagati di 6 regioni. Sono raccolte in un dossier di 600 pagine le accuse rivolte dalla Dda alle persone indagate. Agli arrestati è stata contestata l’associazione a delinquere di stampo mafioso. I difensori si preparano a contestare punto per punto le accuse. «I fatti riguardano questioni che vanno dal 2010 al 2012, sono fatti vecchi», sottolinea l’avvocato Massimiliano Baccalà, difensore con i colleghi Alessandro Orlando ed Elisa Pastorelli del gruppo di vastesi. Vasto e San Salvo, secondo gli investigatori, sarebbero state le basi degli indagati e i personaggi locali avrebbero avuto un ruolo di spicco nel clan gestito da Eugenio Ferrazzo.
La nascita del clan. Inquietante la storia di Ferrazzo. Entrato in azione in Abruzzo ad ottobre 2006, dopo un periodo di detenzione all’estero per traffico internazionale di cocaina, si trasferì definitivamente a San Salvo, sfuggendo alla mattanza ordita dallo zio Mario Donato Ferrazzo, ormai capo indiscusso della ’ndrina di Mesoraca e reclutando manovalanza. «In una prima fase», sostengono gli investigatori, «Eugenio Ferrazzo stabilì la sua base operativa e logistica a casa della compagna Maria Grazia Catizzone (anche lei in manette) prima a Montesilvano poi a San Salvo, grazie al programma di protezione per collaboratori di giustizia riuscendo a cooptare la quasi totalità degli spacciatori della zona, costringendoli ad acquistare e smerciare per suo conto ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti e strutturandoli in articolazioni territoriali ben definite, al cui vertice poneva i propri referenti fidati, definiti luogotenenti».
Le accuse. Avvalendosi del know-how messogli a disposizione dal padre Felice, Ferrazzo avrebbe sviluppato un sodalizio criminale secondo le connotazioni e i rituali tipici del contesto associativo di provenienza, operante secondo il metodo mafioso contraddistinto da un’importante opera di penetrazione nel sistema produttivo del Vastese e molisano, mediante investimenti in società e immobili dove ripulire i proventi delle attività illeciti. Un collaboratore di giustizia, già esponente della mafia messinese, avrebbe fornito un valido viatico. Eugenio Ferrazzo nella sua ottica espansionistica e per mantenere la propria egemonia avrebbe intrapreso, con il suo “gruppo di fuoco”, atti intimidatori nei confronti di imprenditori non allineati e di concorrenti in analoghe attività criminali, generando un sistema estorsivo e ritorsivo insospettabile. Nel corso delle indagini sarebbero state documentate le cerimonie di affiliazione che prevedevano giuramenti su santini e altre immagini sacre, insieme ad altri rituali. Fatti che hanno spinto la Dia a scrivere al Parlamento che il Vastese è una tessera importante nel mosaico espansionistico della ’ndrangheta.
Paola Calvano (ilcentro)
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