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Fallimenti e fughe, la grande crisi del calcio

Anche il calcio porta al fallimento, trascinando sentimenti e passione in un dirupo. Altro che gioco! Accade addirittura che il Chieti venga dichiarato fallito durante il campionato perché non ci sono più soldi. Società oberata di debiti. Un epilogo preventivabile per il Chieti vista la situazione finanziaria degli ultimi anni sfociata nella sentenza del tribunale emessa mercoledì. Secondo fallimento nel giro di dieci anni. Campionato falsato. Accade anche questo in un mondo, quello della serie D, che di dilettantismo ha poco. Ciò induce a una riflessione: se è vero che lo sport, il calcio in particolare, è il termometro dell’economia del territorio, beh l’Abruzzo non è messo bene. Sono due i club professionistici, praticamente il minimo storico degli ultimi 30 anni: il Pescara in serie A e il Teramo in Lega Pro. Bei tempi i primi anni Duemila quando l’Abruzzo contava anche sei club tra i professionisti.

E poco importa che i risultati del campo (quelli attuali) non siano soddisfacenti, perché i numeri della classifica sono (quasi) sempre figli dei conti del bilancio. Il problema è che la regione non ha abbastanza risorse da veicolare verso il calcio. Che, va ribadito, ha un prezzo oneroso da sopportare. Non ci sono imprenditori disposti a investire sul pallone a certi livelli, perché nel corso degli anni i costi di gestione sono lievitati al contrario dell’economia che ha fatto registrare dei passi indietro. La storia degli ultimi decenni è piena di club falliti o esclusi dal calcio professionistico per inadempienze economiche. Praticamente quasi tutte le piazze abruzzesi: da Pescara a Castel di Sangro, passando per Lanciano, Giulianova, L’Aquila e Teramo. Addirittura, in alcuni casi anche più volte.

Il calcio abruzzese ha un passato speso soprattutto in serie B (con il Pescara) e in C (oggi Lega Pro). Ci sono stati degli exploit – ad esempio, i due anni del Castel di Sangro (dal 1996 al 1998), i quattro della Virtus Lanciano (dal 2012 al 2016) in B e i sette del Pescara in A – ma il trend storico è ben delineato.

Basta guardare gli ultimi bilanci del Pescara, in serie B, per rendersi conto della situazione. I bilanci approvati al 30 giugno 2015 e 2016 sono rispettivamente di 24 e di 26 milioni di euro. E per arrivare a pareggiare entrate e uscite l’unica strada (alternativa all’esborso dei soci) è rappresentata dalle plusvalenze. E il Pescara negli ultimi anni è stato abile a valorizzare i giocatori da rivendere. I casi più eclatanti sono quelli di Verratti, Quintero, Bjarnason, Melchiorri e Lapadula. Che hanno fruttato i milioni necessari per tenere a galla i conti del club.

Lega Pro. E chi non riesce a fare plusvalenze? Chi non ha la vetrina della serie B o della A? Non c’è altra strada che l’esborso di tasca propria da parte del proprietario. Per fare un buon campionato di Lega Pro non si può andare sotto i 2,5-3 milioni di euro all’anno. Lo sa bene il presidente del Teramo Luciano Campitelli che al termine di ogni stagione mette mano al portafogli. Si può lavorare sui ricavi quanto si vuole, ma per pareggiare i conti occorre pagare in prima persona. Di più o di meno a seconda dei ricavi, ma comunque tra 500 mila euro e un milione. Anche perché con i costi dei giocatori lievitati, i pochi contributi federali e i gli incassi al botteghino non rappresentano nemmeno la metà del bilancio.

Il passato insegna. Nel corso degli anni alla guida dei club abruzzesi si sono alternati imprenditori locali e non. Anche faccendieri arrivati al di fuori del mondo pallone e con obiettivi equivoci. Fino a qualche anno fa, la presenza in società di gente del posto era una garanzia di continuità aziendale, adesso non più. Il caso della Virtus Lanciano è emblematico: proprietà frentana, la famiglia Maio, ma dopo otto anni, l’estate scorsa, ha mollato, lasciando la città senza calcio. Lo ha fatto dopo che il bilancio chiuso al giugno 2015 presentava una perdita d’esercizio di poco più di tre milioni di euro, nonostante nelle ultime stagioni non ci fossero stati grossi investimenti. Sta di fatto che alla porta ci sono diversi creditori che reclamano soldi.

C’è poi chi ha avuto la forza e il coraggio di mollare in tempo. Ad esempio, Gabriele Gravina, oggi a capo della Lega Pro, ricordato per essere stato il presidente del Castel di Sangro dei miracoli, quello arrivato in serie B nel 1996. Un paese di 5.500 abitanti in grado di arrivare a giocare la coppa Italia a San Siro contro l’Inter. Gravina quando ha capito che il futuro era segnato ha subito ceduto la società che poi, passando di mano in mano, è scomparsa.

In pochi ricordano Armando Scopelliti a Vasto. Erano gli anni Novanta e quello che si presentava come un immobiliarista romano fu eletto anche consigliere comunale (centrodestra), ma di soldi se ne sono visti pochi, perché poi il club è stato escluso dai professionisti per inadempienze finanziarie nel 1995. E Scopelliti condannato per bancarotta.

Sempre da Roma è arrivato in Abruzzo Paolo Di Stanislao nell’estate del 2006. Nel giorno della finale dei mondiali di Berlino, il 9 luglio, la firma dell’atto d’acquisto del Chieti dalle mani di Antonio Buccilli, ma Di Stanislao non riuscì nemmeno a iscriverlo al campionato successivo. Da Lanciano a Chieti nel giro di qualche mese: questa volta prende la società da Riccardo Angelucci e fa calcio per un paio d’anni. Il finale? Il fallimento, ovviamente. Un film conosciuto anche all’Aquila, L’ultimo crack nel 2004 quando i rossoblù avevano appena sfiorato la serie B con il presidente Michele Passarelli, un imprenditore salito dalla Calabria con la speranza di fare dei lavori in città che poi non ha mai eseguito.

Alla legge dei cicli del calcio non è sfuggita nemmeno una piazza come Pescara. Fallimento nel dicembre del 2008 e dalle ceneri è nato il Delfino che oggi gioca in serie A. Almeno questa una bella storia.

Rocco Coletti (il centro)

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