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La morte è uno strazio, ma serve a pensare alla vita

Il Nuovo mi ha chiesto un editoriale, come ai vecchi tempi, sulla tragica estate vastese. Meno male. Perché non avrei parole da dire a chi è rimasto, alle persone care che piangono stritolate dal dolore, ma ho soltanto parole per riempire una pagina bianca, un display bianco come il volto collassato di chi, davanti all’obitorio, ha sospeso la vita e il ricordo.

Si muore a novanta e a venti, a trentanove e a sette, si muore sempre, eppure si parla di morte e morte, di dolore e dolore. È uno strappo, la morte, e non c’è pezza che tenga. È una lacerazione, la morte.

Così dice chi l’ha provata da vicino, da molto vicino. La mamma che ha perso il figlio, la sorella che ha perso il fratello, il marito che ha perso la moglie, il nipotino che ha perso il nonno. È inestricabilmente legata alla vita, la morte. Pavese ha scritto che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. A tutte le latitudini, ovunque. A Nizza, tra Andria e Corato, a Petacciato, su un campo di calcio, in una casa di riposo.

Non esiste la tragica estate vastese. Esiste la morte. È un soffio, la morte. Mentre ti chiedi perché, ha già prodotto il danno. Irreparabile.

Le ferite dell’amore non si sanano, avverte una canzone napoletana, ma la morte non è una ferita. È uno strazio, la morte. La cosa più preziosa che senti di avere tra le mani, accanto, intorno, cade a terra e si annienta. Non sale in cielo. Cade a terra. Va giù. Precipita. Non abita qui, tra queste righe, la consolazione. C’è soltanto la vita che resta ad opporsi, a gridare la propria voglia di non finire la partita, di godersi ciò che abbiamo davanti, le persone care, il sole che sorge, il respiro di un figlio. Non resta che la vita, la nostra vita, a dirci del suo straordinario valore.

Ecco a cosa serve, la morte. A pensare alla vita, a tenersi la vita, a godersi la vita. Che non vuol dire sprecarla o gettarla, ma viverla. Come la stavano vivendo Giuseppe, Roberta, Andrea, Domenico, sul lungomare di Nizza o sul binario unico della nostra amata Puglia, prima che si fermasse, che si interrompesse.

C’è la morte naturale, la morte provocata, la morte imposta, la morte casuale, la morte dei bambini, dei giovani, degli adulti e degli anziani. Distinzioni che non aiutano a lenire la pena. C’è la morte. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. I nostri occhi. E il pensiero di chi resta. Il dolore di chi resta. Non consolabile con una parola, con un mi piace, con una pacca sulla spalla.

Reca in sé anche un altro brutto vizio, la morte. Ci fa credere che riguardi sempre l’altro per innalzare, in noi sopravvissuti, il delirio di onnipotenza. Canetti lo sa. La morte, per lui, è una battaglia sempre perduta.

Davide D’Alessandro

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