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«Adriatico, una trappola per i grandi capodogli»

capodogli spiaggiati-punta penna - testata-3Il Centro, quotidiano dell’Abruzzo, ha pubblicato nei giorni scorsi una intervista a firma di Andrea Mori al prof. Giovanni Di Guardo, Docente di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria dell’Università di Teramo, sulle cause che, l’11 settembre scorso, hanno portato sette capodogli a spiaggiare a Punta Penna di Vasto. L’attualità dell’argomento e l’interesse che suscita, ci hanno spinti a pubblicare lo stesso articolo sul nostro sito, ringraziando il quotidiano Il Centro, il suo Direttore e il giornalista Andrea Mori. 

Il professor Giovanni Di Guardo è docente di Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Teramo, ed è impegnato – in collaborazione con l’Università di Padova, con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise “G. Caporale” e con altre Istituzioni ed Enti di ricerca nazionali e internazionali – in prima persona nelle indagini e nello studio delle cause che l’11 settembre scorso hanno portato sette capodogli a spingersi in un habitat per loro inidoneo come il mare Adriatico e a spiaggiare a Punta Penna di Vasto. Secondo la storia si tratta del settimo caso negli ultimi cinque secoli. Le indagini di laboratorio potranno durare _ come è avvenuto in occasione dell’analogo spiaggiamento che si è verificato cinque anni fa nel Gargano _ anche diversi mesi per definire la sequenza dei processi spazio-temporali. Professor Di Guardo, iniziamo dalla fine e cioé da quella nota del 27 settembre con la quale il ministero ha fatto sapere e confermato che nei giorni precedenti allo spiaggiamento dei copodogli a Vasto e tantomeno nello stesso giorno, non si sono svolte attività geofisiche petrolifere in mare né esercitazioni militari. Che cosa significa? «Faccio una premessa. Non esiste alcuna dimostrata connessione che metta in relazione causa-effetto tra le attività di prospezione geosismica, e quindi le onde airgun sparate verso il fondale marino e volte ad accertare la presenza di idrocarburi nel sottosuolo, con il comportamento dei capodogli in mare. Per quanto invece riguarda le esercitazioni militari, l’unico riferimento precedente risale al 2002 quando il professor Fernandes, che tra l’altro collabora con il suo gruppo di Las Palmas al caso di Vasto, riuscì a documentare la connessione tra lo spiaggiamento di massa di capodogli, che c’era stato alle isole Canarie, con le onde a media frequenza emesse da sonar militari. Nei pressi delle Canarie infatti proprio nei giorni che precedettero lo spiaggiamento di massa dei capodogli, si erano svolte alcune esercitazioni militari da parte della Marina americana. Grazie a quel documento del professor Fernandes venne adottata una moratoria in cui si stabiliva il divieto di svolgimento di esercitazioni militari con l’impiego di sonar. Ora, tornando alla nota del ministero che recita che in quel giorno e nei giorni precedenti al caso di Vasto non risultano notizie né di esercitazioni militari né di attività di trivellazione, si può escludere la connessione dello spiaggiamento con le onde dei sonar. Ma prima di tutto dobbiamo capire come mai, per quale motivo, i capodogli si trovavano dove non si dovevano trovare, cioé nel mare Adriatico». Continuiamo per esclusione, professore. Scartati gli airgun ed i sonar militari, perché il ministero ha detto che non ci sono state attività di questo tipo, dove si incentrano le vostre indagini? «Allo stato dei fatti non possiamo escludere alcuna relazione: è presto per dirlo, le indagini sono tuttora in corso e richiederanno settimane di faticoso lavoro. Alla fine cercheremo di raccogliere i frutti di questo lungo e affascinante lavoro multidisciplinare svolto da svariate associazioni accademiche e non italiane, oltre alle Università di Teramo e di Padova presso cui lavora il professor Mazzariol, responsabile della task force finanziata dal ministero dell’Ambiente e che si occupa degli spiaggiamenti di massa. Le nostre ricerche sono al momento coinvolte nello svolgimento delle numerose indagini di laboratorio a 360 gradi. E questo perché non è solo una questione di ottenimento dei dati, ma è una questione di interpretazione e di ripetizione degli stessi dati proprio per poter assicurare l’analisi e confrontare i risultati. Siamo d’altra parte nell’ambito di una varietà ecologica insita nel concetto di biologico stesso e che ammette una variabilità intrinseca». Un punto di partenza, però, c’è: è l’embolia che è stata riscontrata nei capodogli. E’ la causa della loro morte? «E’ stato riscontrato lo sviluppo di una condizione che va sotto il nome di sindrome embolica gassosa -lipidica che è analoga alla malattia di decompressione dei sub, l’embolia appunto, con componente lipidica». Che cosa vuol dire che, come per i sub, i capodogli sono emersi troppo in fretta accumulando gas nel sangue? «Diventa elemento d’indagine importante valutare l’esatta composizione dei gas presenti negli emboli sottocutanei, compito che si farà carico l’unità del professor Fernandes, e mettere quindi in relazione tutti i risultati di laboratorio sulla falsariga di quanto è stato fatto cinque anni fa con lo spiaggiamento del Gargano. I gas possono essere da decomposizione post-mortali o pre-agonici a seguito cioè di un disagio cardio circolatorio poiché i capodogli hanno avuto difficoltà di respirazione nel momento in cui sono gravati con il loro peso sulla battigia. Analoghi reperti ricordo che furono osservati in più esemplari nel Gargano tre dei quali morirono a seguito del decubito sulla spiaggia». Il procedente del Gargano, dicembre 2009, sembra avere parecchie analogie con Vasto, oltre allo stesso numero, 7, dei capodogli spiaggiati. E’ possibile che si vada verso le stesse conclusioni? «Beh, a parte che nel Gargano erano 7 maschi sub-adulto mentre a Vasto sono morte tre femmine una delle quali in gravidanza e con gravi lesioni renali e non si sa nulla degli altri 4, ci sono anche analogie topografiche nell’ambito geografico. Nel 2011, grazie alle nostre indagini, con l’aiuto della rete degli Istituti zooprofilattici sperimentali _ una decina, alla quale fanno parte le istituzioni accademiche sotto l’edita dei ministeri dell’Ambiente e della Salute e a cui fa riferimento la task force degli spiaggiamenti di massa del professor Mazariol _ fu individuata una genesi multifattoriale e tracciato un algoritmo che determinarono prima l’ingresso dei cetacei nell’Adriatico e poi lo spiaggiamento». Nel Gargano fu rilevato che i capodogli non mangiavano da molto tempo e che l’assenza prolungata di cibo, insieme alle condizioni ambientali improprie, aveva provocato il consumo delle riserve adipose con il conseguente rilascio di tossine come il mercurio che si erano accumulate nel grasso. I capodogli avrebbero avuto il sistema nervoso in tilt, e perso il senso di orientamento. E’ questo un modello applicabile anche per il caso di Vasto? «Saranno esplorate tutte le possibilità. Di sicuro l’Adriatico è un ambiente del tutto inospitale per il capodoglio, che è un “campione di immersioni”. Già il Mediterraneo è un mare chiuso e l’Adriatico è ancora più chiuso e più basso. E’ inevitabile che si trasformi in una trappola, una specie di sito a fondo cieco a “cul de sac” per il capodoglio che può invece raggiungere i tremila metri sott’acqua. Poi ci sono da considerare anche il surriscaldamento del mare, le correnti…». I capodogli di Vasto avevano lo stomaco vuoto come quelli del Gargano? «Nello stomaco c’erano becchi di calamaro, segno che avevano comunque mangiato da poco. Nei capodogli del Gargano ricordo che furono trovati fino a 4-5 chili della più disparata natura, buste e contenitori di plastica, reti. Nel caso di Vasto è stata trovata una quantità più esigua di pezzi di rete da pesca e un bastone, sempre di quelli impiegati nella pesca». Professore, comunque vada, è sempre colpa dell’uomo? «Beh, nel caso del Gargano è stato accertato come la presenza di veleni in mare sia stata determinante nello spiaggiamento. Elevati livelli di mercurio e di altri elementi contaminanti ambientali immunotossici svolgono un’azione tossica a livello linfatico e cerebrale. Sono i clorudrati, i famosi pcb, che deprimono dal punto di vista immunologico i cetacei. Il cervello riporta alterazioni in relazione all’assorbimento dei gas, mercurio e pcb si accumulano nel grasso a cui l’animale fa ricorso quando non si alimenta per lunghi periodi e a sufficienza. E con la mobilitazione dei gas si innalza il livello di tossicità». Dunque l’inquinamento e quindi l’uomo. Alla fine la colpa è sempre sua… «E’ evidente come il cpb, e le tossine come il dtt siano prodotti dall’uomo e dalle sue attività, il mercurio ha varie fonti è anche di origine naturale ma il contaminante è prodotto dall’uomo. C’è inoltre da considerare come questi animali, che sono predatori, siano ai vertici di un’ipotetica piramide naturale e questo vuol dire che sono in grado di accumulare queste sostanze a livelli più alti fino a quando non “scoppiano”». Se il caso si è ripetuto per la seconda volta in cinque anni, viene da pensare che aver individuato le cause dello spiaggiamento del Gargano non abbia insegnato nulla… «Le rispondo tornando al caso delle Canarie nel 2002. Negli anni successivi all’applicazione della moratoria nella quale veniva stabilito il divieto di utilizzo dei sonar militari, nessuna morte di animale fu più ricondotta alla sindrome embolica gassosa». Quindi? «Quindi è il caso di dare una bella ripulita all’Adriatico”

Andrea Mori
Il Centro

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