Indebolimento, crisi, declino o fine della politica? Considererei le prime tre parole e mi fermerei di fronte alla quarta. È vero che le evidenze della debolezza, della crisi e del declino ci sono tutte, ma la fine no perché, come ricorda anche Guido Rossi, citando Machiavelli: “era necessario che l’Italia si conducesse nei termini presenti (…) senz’ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sopportato ogni sorta di rovina” (Il Principe, XXVI). Necessario, ovviamente, per rinascere. La rovina come momento non più eludibile per godere di una ripartenza. Eppure, non è detto. Non è detto, poiché da vent’anni assistiamo a qualcosa di peggio della rovina, presagio di un possibile riscatto. Assistiamo a una crisi senza fine, a un declino che non accenna a terminare, per un Paese sempre sospeso, precario, instabile, tenuto insieme con la sola colla della speranza. Manca il sussulto, la reazione, l’intrapresa di una scommessa su cui puntare. L’egolatria, ha ragione Rossi, è nemica dello Stato, ha dilaniato le coscienze, ha immiserito lo spirito di una classe dirigente incapace di dire “noi”, di coniugare i verbi al plurale, di parlare con le parole dei cittadini, dopo averne percepiti i sentimenti, le delusioni, i dolori. Ha detto il filosofo Emanuele Severino: “Mi riesce difficile pensare a un uomo politico che anteponga al proprio vantaggio il bene comune.
In giro non ne vedo. Forse Alcide De Gasperi e Aldo Moro”. La politica è necessaria, un suo indebolimento misto a crisi o, peggio, a declino, non può essere tollerato a lungo. Aver piegato il ginocchio nei confronti dell’economia (finanziaria, non reale), non averla saputo guidare, facendosene in verità travolgere, è soltanto una delle cause di questo declino. La potenza della tecnica ha modificato il quadro, i confini del campo e le regole del gioco. L’Europa della moneta e non dei popoli ha spossessato la grande Idea unitaria delle ragioni stesse che l’avevano alimentata. Restano tanti, tantissimi politici-giocatori che indossano la maglietta della propria squadra e giocano per vincere una partita che viene decisa altrove. Non tutti ne sono consapevoli. Anche questo è il segno della quotidiana e inevitabile sconfitta. A ogni operatore della politica non resta che tornare all’uso dell’ago e del filo per ricucire un rapporto, se è ancora possibile, lontano dalla demagogia e dal populismo, con cittadini adulti in grado di comprendere che l’unica democrazia possibile non è diretta, ma indiretta. Ha bisogno di rappresentanti e di rappresentati intelligenti, che sappiano dire “noi” e non “io”, “servizio” e non “carriera”, “bene comune” e non “bene proprio”, “Italia” e non “partito”. Si riparte da qui. Forse è poco, ma è anche tutto.
Davide D’Alessandro