Sulla questione delle origini di Villalfonsina abbiamo già scritto(1). Ci ritorniamo per confermare la nostra ipotesi ripensando e valutando scrupolosamente tutti gli eventi e le date del tempo storico in cui si sarebbe formato il nuovo agglomerato urbano. Di sicuro, per la nascita di un paese, non esiste un’anagrafe dove andare a registrare il lieto evento né per Villalfonsina c’è il mito di un qualche altro Romolo o Remo. In generale, per la storia dei nuovi villaggi il problema è molto complesso perché bisogna destreggiarsi fra tante incertezze.
Sul caso delle origini di Villalfonsina si riferiscono tradizionalmente due opinioni: una che la vuole fondata dal feudatario Alfonso Caracciolo principe di San Buono e barone di Casalbordino, l’altra fondata da una colonia di Albanesi per volere di don Alfonso d’Avalos marchese del Vasto.
Circa la fondatezza della prima tesi dobbiamo semplicemente controllare la discendenza dei Caracciolo a San Buono. Il primo Principe, fino al 1598, è stato don Giovanni Antonio II, il secondo don Martino V fino al 1625 ed il terzo don Alfonso, dal 1625 al 1660. Proprio don Alfonso, oltre che terzo Principe di Santobuono, è stato 3° Principe di Castel di Sangro; 6° Marchese di Bucchianico; Barone di Castellone, Fraiano, Belmonte, Roca Spinalveto, Moteferrante, Lupara, Calsacco delle Fraine, Moro, San Vito, Roccaraso, Frisa Grandinara, Castel Collalto; Conte di Capracotta, 6° Conte di Serino e Melito, Conte di Schiavi dal 4 febbraio 1626; Gran Siniscalco del Regno di Napoli.
E’ evidente che, se don Alfonso è stato Principe di Sanbuono dal 1625 al 1660, non può, come vedremo, aver fondato Villalfonsina che di fatto esisteva già da un secolo. Né, per di più, poteva essere Barone di Casalbordino che, allora, non era più nemmeno dei d’Avalos perché era stata venduta nel 1661, insieme a tutta la Contea di Monteodorisio, da Lavinia Feltria della Rovere, moglie di Felice Alfonso d’Avalos, a Matteo II di Capua principe di Conca, famiglia che ne manterrà il possesso fino al 1697 quando la dinastia si estinse e la Contea, per via di un precedente matrimonio con una d’Avalos, ritornò alla stirpe dei d’Avalos, allora Cesare Michelangelo.
Per la seconda tesi il discorso è più difficile perché più complesso, basandosi su dati mobili e sfuggenti.
Per le immigrazioni degli Schiavoni chiariamo subito che non sono state invasioni di diseredati e disperati in cerca di fortuna. Come abbiamo trattato(2), “I primi arrivi degli Slavi nel Regno di Napoli, infatti, non provengono dal fenomeno migratorio, ma chiamati per sostenere re Alfonso d’Aragona in lotta, negli anni 1448-1450, con i baroni ribelli nostalgici degli Angioini. In compenso del successo ottenuto, i militi schiavoni insieme al loro generale Demetrio Reres ebbero dal sovrano napoletano licenza di potersi stanziare nelle terre di Calabria.
Nella prospettiva di una richiesta di aiuto militare venne quindi stipulato il 26 marzo 1451 a Gaeta un trattato, precedentemente discusso a Foggia, nel quale risultava che, in cambio degli aiuti prestati, re Alfonso avrebbe avuto la città di Krùja col castello e gli altri possedimenti annessi. Il trattato prevedeva anche che, con la cacciata avvenuta dei Turchi, il Capo della Lega dei Popoli Albanesi e Capitano generale dell’esercito Giorgio Castriota Skanderberg avrebbe dovuto assicurare al sovrano aragonese l’omaggio di fedeltà e di vassallaggio.
A partire dall’anno dopo la firma del trattato, il generale Castriota sconfisse più volte gli eserciti del sultano turco tanto da guadagnarsi credito e popolarità in tutta Europa. Dal papa Callisto III ebbe gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della fede, mentre il papa Eugenio IV ipotizzò di affidargli il comando di una crociata.
Nel frattempo i legami fra re Alfonso e il generale Skanderberg divennero sempre più stretti, amicali, intimi, ma divennero anche più frequenti gli sbarchi dei popoli slavi, lungo le coste delle regioni rivierasche del Regno, attratti dalla bontà di tangibili agevolazioni garantite anche dai feudatari. Per questo dobbiamo tener presente che l’immigrazione venne favorita dal fatto che il sistema feudale permetteva ai Baroni di utilizzare gli immigrati non solo come uomini d’arme, ma soprattutto come forza-lavoro nei loro feudi, dato il vuoto demografico prodotto dalle ricorrenti pestilenze e dalle continue guerre.
L’esodo più massiccio avvenne nell’ultimo quarto del secolo, specialmente dopo la capitolazione di Scutari nel 1479″.
A proposito riportiamo un testo di Anton Ludovico Antinori, storico aquilano ma anche vescovo di Lanciano dal 1745 al 1754, una pagina molto interessante ma anche particolarmente importante ai fini della nostra ricostruzione storica.
“Dacchè l’Imperadore de’ Turchi, presa Costantinopoli, si rivolse ad occupare Icutari Città dell’Albania nella Dalmazia, avevano gli Abitatori della Provincia, atterriti, incominciate numerose trasmigrazioni in Italia. Ne erano provvenute così popolazioni di varj Castelli nelle Diocesi di Larino, e di Termoli, e ne provvenivano tutta via delle altre ne’ luoghi tra i fiumi Senella, e Sangro. Insorsero per tale occasione le Ville Cupella, ed Alfonzina; e nel territorio di Lanciano Stanazzo, S. Maria in Bari, e Scorciosa, come pure in quello di Ortona Caldara. Furono loro concedute quelle, ed altre Ville, perchè venissero ripopolate, come avvenne. Quei nuovi ospiti, e le Ville stesse, furono dal volgo denominate degli Albanesi, o pure degli Schiavoni. Sulle prime, anzi per qualche lungo tratto, ebbero solamente casucce di legni, e di canne, o anche di paglie, e crete. Cominciarono poi a formare case di pietra, e calcina al costume delle vicine, secondo la condizione de’ luoghi, e delle persone”(3).
Sulla presenza degli Schiavoni nel nostro territorio riferisce anche Domenico Romanelli, noto storico di Fossacesia, affermando che essi “in gran copia erano in questa Regione, e specialmente in Lanciano venuti sin da primi tempi de’ Re Aragonesi, e si erano sparsi per tutto il Distrettto”(4).
Per avere un’idea di quanti fossero in quel tempo gli immigrati slavi insediati favorevolmente su buona parte delle regioni del Regno di Napoli, dobbiamo rievocare il linguaggio istituzionale allora in uso relativo all'”Università” e ai “Fuochi”.
Dobbiamo ricordare che Carlo I d’Angiò sostituì il termine “Comune” col nome di “Università”, unità demo-territoriale, a sua volta distinta in “demaniale se dipendeva direttamente dalla Corona, “feudale” o “baronale” se posseduta dai feudatari che, in questo caso, ne disponevano liberamente per la vendita o l’acquisto, come una merce qualsiasi.
Abbiamo poi i “fuochi” istituiti da Alfonso I d’Aragona nel marzo del 1443. Un “fuoco” era un nucleo familiare cui veniva imposta una tassa di 10 carlini, il “focatico”. Nello stesso tempo il re aragonese inventò anche un nuovo metodo di prelievo fiscale creando il catasto che doveva essere aggiornato di anno in anno riportando il valore, espresso in once, sia dei beni che di lavoro.
La numerazione dei fuochi doveva essere fatta ogni tre anni da ufficiali dipendenti della Regia Camera della Sommaria, istituita nel 1444, supremo organo burocratico-finanziario, ma anche giudiziario ed amministrativo.
Nel 1447, pur fra tante difficoltà, si ebbero i risultati della prima numerazione, nel 1507 la periodicità triennale fu portata a 15 anni, nel 1737 sarà abolita da Carlo di Borbone.
Di particolare importanza per il nostro assunto resta la numerazione fatta da Carlo Leclerc(5) su ordine di Carlo V nel 1521. L’autore, a conclusione del suo incarico, scrisse un resoconto molto dettagliato dello stato del Regno, compilando un elenco di tutti i centri abitati con l’indicazione relativa del numero dei fuochi e, a parte, un altro elenco delle famiglie di Schiavoni. Riportiamo in copia originale solo i fuochi slavi presenti nell’Abruzzo Citra.